Chi ruba la terra e il cibo agli Africani?

Da il 9 aprile 2010

africa cibo6 Chi ruba la terra e il cibo agli Africani?   Nel mese di agosto del 2009 il re saudita Abdullah ha festeggiato il primo raccolto di riso realizzatoin Etiopia. E al riso seguiranno orzo e grano. Cresciuta in mezzo al deserto come tutti gli Stati delGolfo, l’Arabia Saudita ha scelto di risolvere il problema del cibo accaparrandosi terre coltivabilisull’altra  sponda  del  Mar  Rosso,  nel  Corno  d’Africa:  in  Paesi  come  l’Etiopia,  con  10  milioni  diaffamati, o come il Sudan, che non riesce a uscire dall’immensa tragedia del Darfur.È un fenomeno nuovo (iniziato circa 15 mesi fa) e ancora poco studiato (anche perché la maggiorparte degli accordi è segreta): è il diabolico furto di terra e cibo al continente più affamato e poverodel mondo.Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono stati ceduti in concessione perventi,  trenta,  novant’anni  alla  Cina,  all’India,  alla  Corea,  in  cambio  di  vaghe  promesse  di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1, l’Arabia Saudita1,6, gli Emirati Arabi 1,3.I protagonisti – e anche questa è una novità – sono i governi: da una parte ci sono Paesi che hannosoldi e bisogno di terra. Dall’altra governi poverissimi – e spesso corrotti – che, in cambio di un po’di  denaro,  tecnologia  e  qualche  infrastruttura,  mettono  a  disposizione  senza  indugio  il  bene  piùprezioso di un continente ancora prevalentemente agricolo: la terra.D’altra parte quasi nessun contadino africano può provare di possedere un terreno. Il diritto formaledi proprietà (o di affitto) riguarda dal 2 al 10% delle terre. Nella maggioranza dei casi ci si affida anorme  tradizionali,  riconosciute  localmente,  ma  non  dagli  accordi  internazionali.  E  così  terreabitate, coltivate e usate come pascolo da generazioni sono considerate inutilizzate.C’è chi si porta da casa anche la manodopera, come la Cina, che ormai dal 2000 sta incentivandol’emigrazione in Africa come soluzione al problema demografico, Nel loro nuovo far west, 800 milacinesi gestiscono imprese, costruiscono ferrovie, strade, dighe, si appropriano delle materie prime(petrolio, minerali, legno) e piazzano prodotti a buon mercato.Accanto ai governi, ci sono gli investitori privati: dopo la crisi finanziaria, molti hanno iniziato aguardare  a  beni  di  investimento  più  tangibili:  il  settore  in  cima  alla  lista  è  la  terra  (cibo  ebiocarburanti). Non a caso, nell’agosto del 2009, a New York, si è svolta la prima conferenza delcommercio mondiale di terre coltivabili…Che  cosa  succede  nelle  terre  africane  quando  arrivano  gli  investitori  stranieri?  Si  passadall’agricoltura  tradizionale  -  basata  sulla  diversità,  sulle  varietà  locali,  sulle  comunità  -all’agroindustria: che significa monocolture destinate all’esportazione (riso, soia, olio di palma perbiocarburanti…) e ricorso massiccio alla chimica (fertilizzanti e pesticidi). Quando i terreni sarannocompletamente impoveriti, gli investitori stranieri potranno facilmente spostarsi da un’altra parte.Una  formula  vecchia,  che  riporta  indietro  di  cinquant’anni,  alla  cosiddetta  ”rivoluzione  verde”,avviata negli anni Sessanta con i soldi della Fondazione Ford, della Fondazione Rockefeller e dellaBanca  Mondiale  per  aumentare  la  produzione  di  cibo  nei  Paesi  poveri,  puntando  su  tecnologia  emonocolture.Le  prove  del  completo  fallimento  di  questa  strategia  sono  incontrovertibili.  Un  dato  su  tutti:  nel1970 i sottoalimentati in Africa erano 80 milioni. Dieci anni dopo questo numero è raddoppiato, perraggiungere i 250 milioni di persone nel 2009.Eppure, in nome della sicurezza alimentare, si sta cercando di rilanciarla con il programma Agra(acronimo  di  ”Alliance  for  a  Green  Revolution  in  Africa”,  ovvero  ”alleanza  per  una  rivoluzioneverde”).  Uno  dei  suoi  prodotti  simbolo  è  il  riso  Nerica  (“NewRice  for  Africa”,  ”nuovo  riso  perl’Africa”). Un riso che dà alte rese solo se coltivato con tecniche industriali e sostanze chimiche.I  semi  (venduti  in  esclusiva  da  pochissime  aziende  che  fanno  soldi  a  palate)  devono  essereriacquistati ogni anno. Un sistema impraticabile per i piccoli contadini di Paesi come il Mali o laLiberia, che possiedono e si tramandano da generazioni decine di ecotipi tradizionali di riso.Chi c’è dietro questa strategia? I soliti nomi – la Fondazione Rockefeller, la BancaMondiale, l’Usaid(l’agenzia  per  lo  sviluppo  internazionale  degli  Stati  Uniti)  -  e  poi  un  nuovo,  potentissimoprotagonista: Bill Gates, che ha deciso di dedicarsi alla solidarietà…Il riso è solo un esempio: Agra sta promuovendo decine di varietà selezionate e brevettate (nuovevarietà di cassava, sorgo, mais…); le aziende sementiere nascono come funghi; i contadini ricevonopacchetti  di  sementi  e  fertilizzanti  (gratis  per  un  anno,  scontati  per  altri  tre  o  quattro  anni).  E  iprodotti tradizionali, che hanno nutrito generazioni di contadini africani, scompaiono.Nel 1960 – all’alba della decolonizzazione – i Paesi africani producevano cibo a sufficienza per ilconsumo domestico, anzi, riuscivano addirittura a esportare. Oggi invece sono costretti a importarela maggior parte degli alimenti.A  Sandaga,  il  più  grande  mercato  alimentare  nell’  Africa  occidentale  (nel  cuore  di  Dakar)  sipossono  comprare  frutta  e  ortaggi  portoghesi,  spagnoli,  italiani,  greci  a  metà  del  prezzo  degliequivalenti locali. E questo vale per tutti i prodotti: dalle ali di pollo degli allevamenti industrialieuropei  al  cotone  americano  al  riso  tailandese.  L’agro-industria  occidentale,  grazie  a  giganteschisussidi  pubblici,  piazza  le  proprie  eccedenze  sottocosto  sui  mercati  poveri,  rovinando  i  contadinilocali.In mare la situazione non è meno grave. Le flotte di Europa, Cina, Giappone e Russia devastano ilitorali  africani,  comprando  le  licenze  di  pesca  dai  governi  locali  e  pescando  in  modoindiscriminato.E  così  si  disgregano  le  comunità  costiere  (in  Africa  vivono  di  piccola  pesca  nove  milioni  dipersone):  i  pescatori  si  trasformano  in  operai  per  le  fabbriche  del  pesce  (gestite  da  compagniestraniere) e spesso sono costretti a vendere le barche a prezzi stracciati ai passeurs di esseri umani.Su queste piccole barche – inadatte alla navigazione in alto mare – ogni anno muoiono migliaia didisperati in cerca di una vita migliore.Insomma, non possiamo fare altro che sottoscrivere le parole del sociologo Jean Ziegler: «Da unaparte si organizza la fame in Africa, dall’ altra si criminalizzano i rifugiati della fame». E quelle diThomas Sankara, rivoluzionario e capo del governo del Burkina Faso per qualche anno, prima diessere ucciso nel 1987, in un agguato organizzato dall’attuale presidente: «Bisogna restituire l’Africaagli africani».                  Di Carlo Petrini – La Repubblica, 26 gennaio 2010

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