Kirov, la fossa comune dei soldati italiani dispersi in Russia

Da il 17 settembre 2016
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Vicino agli Urali riaffiora l’orrore dei soldati italiani prigionieri dei sovietici durante la seconda guerra mondiale descritto da Nuto Revelli nel libro La strada del davai, avanti, cammina, in russo.

A Kirov, a 800 chilometri a est da Mosca, è stata scoperta una fossa comune con i resti di soldati dell’Asse, probabilmente anche italiani.

Lungo una ferrovia, 500 metri di larghezza per 100 di altezza e 4 di profondità, colmi di ossa. Si potrebbe trattare di quindicimila uomini, morti durante la deportazione e in prigionia, dopo terribili sofferenze; e fra loro potrebbero esserci alcuni degli oltre 56 mila dispersi italiani in Russia.

Durante la disfatta di Russia furono uccisi in combattimento 20mila soldati italiani e ben 70mila morirono in prigionia e durante le famigerate marce del davai. Meglio note come marce della morte per raggiungere nella morsa del gelo e senza cibo i campi di concentramento. A Kirov sono arrivati i prigionieri ungheresi, italiani, romeni, tedeschi finiti in mani russe nel 1942-1943, durante e dopo la battaglia di Stalingrado e la liberazione di Voronezh. Nelle sacche provocate dal crollo dell’armata germanica è finito mezzo milione di uomini. E tanti non sono mai tornati a casa.

«I prigionieri catturati, prima li trascinavano a piedi nella neve per centinaia di chilometri. E poi li chiudevano in carri bestiame piombati senza cibo e acqua per giorni. Così morivano i prigionieri italiani dei sovietici, di stenti o di assideramento» racconta Guido Aviani Fulvio direttore del Museo della campagna di Russia in Friuli-Venezia Giulia. «I cadaveri venivano buttati denudati nelle fosse comuni come quelle di Kirov».

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Uno dei soldati ritrovati nella fossa di Kirov è senz’altro italiano, a giudicare dalla piastrina dell’esercito italiano di cui il Giornale ha pubblicato ieri la foto. Un frammento di metallo corroso dal gelo e dal tempo, in cui a fatica si indovina, più che si legga: ‘classe 1922′. Tutto qui, nient’altro, il nome e il cognome e il grado cancellati da settant’anni sotto terra. ‘Classe 1922′, tutto ciò che sappiamo di questo povero milite ignoto. Anzi, un’altra cosa sappiamo: la ritirata italiana in Russia è del 1943, e dunque quello sconosciuto soldato aveva appena 21 anni.

La stessa età che ha oggi un tuo figlio, pensi con una fitta al cuore; e per questo sai bene che faccia, che occhi, e quanta vita addosso hanno i ragazzi, a quell’età. Pensi a sua madre, a suo padre, a quanto devono averlo aspettato: continuando a sperare, nel muro di silenzio piombato su quelle decine di migliaia di dispersi. Deve essere terribile non avere nemmeno un corpo su cui piangere: è come se il lutto si prolungasse, infinito. Mentre laggiù, in quelle lontane sconfinate pianure, i prigionieri venivano sepolti a centinaia, spogliati delle divise, ammucchiati come carcasse di bestie.

Senza nemmeno una croce. (L’hanno trovata, la fossa di Kirov, per caso, costruendo un quartiere di villette). E di tutti quegli uomini e ragazzi non ci resta un nome, nell’annichilimento più estremo. Solo qualche medaglietta della Madonna o di un santo, e quella piastrina arrugginita e disfatta. Quali demoni suscita la guerra, perché gli uomini finiscano nel nulla? Bisognerebbe mostrarla, quella piastrina, in tv e sul web, accanto a tante cose inutili o volgari o deleterie. ‘Classe 1922′, e nient’altro.

E chissà che occhi avevi, ragazzo, e che cosa pensavi mentre ti urlavano ‘davai!’, in russo ‘avanti!’ – avanti, come un gregge al macello. Chissà se pensavi a tua madre, e pregavi.

Marina Corradi

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